due parole sulla sezione

merita un'occhio di attenzione la sezione principe dell'Area Tematica Divulgazione Culturale, MUSICAeQUANT'ALTRO se non per altro che, la stessa è tenuta da quello che viene considerato il guru della musica, soprattutto ed indiscutibilmente di quella proveniente dal continente Africano.
La dicitura "e quant'altro" non è stata inserita a caso. In questa Sezione non verrà trattata solo la melodia ma tutto quello che la attornia, che nasce e si sviluppa da essa.
un grazie a Tancio
il presidente di LANDSgate
M@rino

In questa sezione, oltre all'accurata selezione dei Partner che collaborano con noi, se vorrai, come Associato potrai anche partecipare direttamente alla stesura di pezzi utili alla divulgazione culturale.

mercoledì 30 dicembre 2009

Autori e Musicisti: PINK FLOYD

I Pink Floyd sono i pionieri della psichedelia e uno dei massimi complessi rock di sempre. Nel corso di una carriera lunghissima (in cui si distinguono tre fasi, corrispondenti ad altrettante formazioni) hanno spostato i limiti del pop e del rock sposando l'elettronica e approfondendo la ricerca sonora in una serie di album giudicati pietre miliari della musica popolare del Novecento. Altra loro peculiarità è quella di aver prodotto mastodontiche rappresentazioni multimediali della propria musica attraverso spettacoli in cui la componente visiva è parte integrante di quella sonora.

La lunga storia della formazione inglese ha inizio a metà degli anni Sessanta, quando tre studenti di architettura e un estroso studente di pittura gettano le basi per entrare a pieno titolo nella leggenda del rock, partendo dai club della Londraundergrounde lisergica per arrivare, non senza radicali cambiamenti di stile e di formazione, al successo planetario.
La band nasce dall'incontro dello studente di pittura Roger Keith Barrett (per tutti Syd, nato il 6/1/46 a Cambridge) con Roger Waters (Great Bookham - 9/9/44), studente di architettura e chitarrista di una formazione dal nome cangiante (Sigma 6, T-Set, Meggadeaths, Abdabs) nella quale suonavano altri due aspiranti architetti: Nick Mason (Birmingham - 21/1/45) e Rick Wright (Londra - 28/7/45) oltre al bassista Clive Metcalf e ai cantanti Keith Noble e Juliette Gale. Nel '65, dopo lo scioglimento del gruppo, Waters (al basso), Barrett (chitarra), Wright (tastiere) e Mason (batteria) decidono di formare una band (per brevissimo tempo ne farà parte anche il chitarrista Bob Close): il nome, scelto da Barrett, è Pink Floyd e deriva dai nomi di battesimo di due bluesmen americani, Pink Anderson e Floyd Council.
Nel '66 arriva il momento delle prime esibizioni nei club della Londra underground, con un repertorio che comincia ad assumere una propria identità grazie alle prime composizioni strumentali di Barrett. E' in questo periodo che i Pink Floyd conoscono quelli che diventeranno i loro manager: Andrew King e Peter Jenner.
Nella "Swingin' London", i Pink Floyd riescono a farsi notare come una delle band più originali e imprevedibili, in virtù soprattutto delle esibizioni all'Ufo Club, un locale in cui il gruppo sperimenta i suoi primi coinvolgentilight-show, tentando di coinvolgere il pubblico con proiezione di immagini, diapositive e l'impiego massiccio di un efficace impianto luci.
A cavallo tra il '66 e il '67, i Pink Floyd entrano in sala d'incisione, per i primi demo, con risultati poco incoraggianti: bisognerà attendere ancora qualche mese, infatti, per la pubblicazione del primo singolo del complesso, "Arnold Layne/ Candy and a Currant Bun" (prodotto da Joe Boyd).
Il successo arriva immediato ed è seguito a breve distanza da un secondo singolo-hit, "See Emily Play/ The Scarecrow": la band partecipa per ben tre volte consecutive a "Top of the Pops" ed è finalmente pronta per il primo album, pubblicato nell'estate del '67: The Piper at the Gates Of Dawn. Il disco, prodotto da Norman Smith, si impone subito grazie al sound particolare e assolutamente innovativo e a testi singolari, divisi tra atmosfere oniriche e spaziali ("Astronomy Domine", "Interstellar Overdrive") e brevi filastrocche per le quali Barrett attinge al mondo delle fiabe ("The Gnome", "The Scarecrow", "Lucifer Sam").
"Astronomy Domine" è il resoconto di un viaggio stellare intrapreso da Barrett attraverso l'uso dell'Lsd: il basso pulsante rappresenta la connessione radio con la terra, mentre la chitarra onnipresente, insieme a un canto maestoso e solenne, sembrano errare in un panorama cosmico oscuro, con il drumming forsennato di Mason, a enfatizzare le parti più drammatiche.Il capolavoro del disco, e forse anche l'apice della produzione di Barrett, è però: "Interstellar Overdrive". E' la cronaca di un viaggio umano nell'universo. Introdotta da un riff da film dell'orrore, si sviluppa nei suoi undici minuti seguendo una sola regola: almeno uno strumento deve mantenere il ritmo. E sopra questo ritmo, si sviluppa una jam session acidissima, fatta di astronavi che sfrecciano, di asteroidi che si scontrano, di alieni e alienazioni, di muri spaziali, di tempeste stellari, di quiete cosmica, di paradisi irraggiungibili. Ma Barrett è anche un maestro nel raccontare filastrocche, come "Lucifer Sam", sorta di proto-hard rock, con un riff incalzante, accompagnato da tastiere che sembrano richiamare una atmosfera orientale, "The Scarecrow", basata su due nacchere e su un canto allucinato, e la gag comica in stile "freak" di "Bike". I lunghi viaggi "acidi" e le atmosfere scanzonate, uniti a una sonorità articolata, nata dall'unione di influenze diverse ma sempre del tutto unica e peculiare, permettono al disco di essere tutt'oggi uno dei lavori universalmente più amati del quartetto. In seguito a questo successo, ormai lanciati verso una folgorante carriera, i quattro partono per gli Stati Uniti in tour, ma è proprio qui che conosceranno le prime difficoltà.
Barrett, infatti, comincia a manifestare i sintomi della schizofrenia (causata molto probabilmente dall'assunzione sistematica di Lsd), assentandosi sempre di più dalla vita del complesso: gli spettacoli dal vivo si fanno insostenibili, così come la pressione che il mondo della musica esercita su quella che è ritenuta, a ragione, la mente creativa del gruppo.
La band opta allora per una soluzione di compromesso, con l'ingaggio del chitarrista David Gilmour (già amico d'infanzia di Barrett e Waters, nato a Cambridge il 6/3/1946), il quale, secondo i progetti del management, deve sopperire alle mancanze di Barrett (che comunque resta nelle vesti di autore) nei concerti. I singoli "Apples & Oranges" e "It Would Be So Nice" non replicano i successi precedenti e gli atteggiamenti bizzarri e imprevedibili di Barrett cominciano a minare l'attività del gruppo.Le precarie condizioni psichiche portano il leader a un impenetrabile autoisolamento e a un progressivo allontanamento dalle scene musicali, non prima della difficoltosa produzione di The Madcap Laughs (gennaio 1970) e Barrett (novembre 1970), due eccellenti album solisti realizzati con l'aiuto di Gilmour e Wright.
Il nuovo manager dei Pink Floyd diventa Steve O'Rourke. E i quattro superstiti non si perdono d'animo e rientrano in studio per incidere il loro secondo album: A Saucerful of Secrets.
Figlio del periodo di instabilità, il lavoro non lesina buone intuizioni, in particolare con la title-track che, come avrà modo di affermare Waters qualche anno più tardi, sembra la trasposizione musicale della parabola artistica dei Pink Floyd, con un inizio governato dall'istinto e un finale stupendo per ordine e limpidezza. Sono quasi dodici minuti di audace avanguardia psichedelica, che alternano terrore e misticismo. E' proprio il bassista a firmare gli altri brani trainanti del disco come l'iniziale raga tribal-psichedelico di "Let There Be More Light", la misteriosa e affascinante "Set the Controls for the Heart of the Sun", capolavoro della musica cosmica, e "Corporal Clegg", che mantiene un più saldo legame con lo stile dell'album d'esordio. C'è spazio anche per due composizioni firmate da Rick Wright ("Remember a Day" e "See Saw"), che per tutta la durata dell'album appare notevolmente ispirato, contribuendo non poco al sound onirico che lo pervade. Il disco si completa con una composizione di Barrett, "Jugband Blues", un piccolo bozzetto delirante, in cui il chitarrista si dimostra perfettamente conscio del suo stato di isolamento mentale, declamando versi che, letti a posteriori, sembrano voler rispondere in anticipo all'album che i quattro gli dedicheranno qualche anno dopo.
Complessivamente, comunque,A Saucerful of Secrets appare segnato soprattutto dal chitarrismo di David Gilmour, che riporta la musica del gruppo verso territori più ancorati alla tradizione rock-blues.
Il 69 è un anno frenetico, dal punto di vista artistico, per i Pink Floyd: il complesso si cimenta infatti nello sviluppo di due suite da proporre negli spettacoli dal vivo come "The Man" e "The Journey", e tenta il primo vero approccio con l'arte cinematografica scrivendo la colonna sonora per il film di Barbet Schroeder, More, a cui si aggiungono quelle per "Zabriskie Point" di Michelangelo Antonioni e "Music From The Body" di Roy Battersby, quest'ultima a nome del solo Waters.
More, in particolare, è forse uno dei dischi più sottovalutati della produzione floydiana, straordinariamente coeso e delicato, con brani che fanno da scenario alle atmosfere del film uniti da una disarmante semplicità melodica. Da ricordare, fra tutti le composizioni, le brevi e acustiche "Cirrus Minor", "Green Is the Colour" e "Cymbaline", oltre alla minisuite "Main Theme", che sembra ricordare la parte centrale della precedente "A Saucerful of Secrets".
Alla fine del 1969, i quattro pubblicano anche il monumentale Ummagumma, destinato a essere annoverato tra i loro capolavori. L'album si compone di due parti: una registrata dal vivo, in cui il gruppo ripercorre i primi successi, e una in studio, formata dal contributo che i quattro musicisti hanno fornito da "solisti", con composizioni sperimentali incentrate sui rispettivi strumenti. E' Wright ad aprire il disco con "Sysyphus", una suite strumentale che mescola musica classica e avanguardia. Waters si cimenta in due brani: l'acustica "Grantchester Meadows" (tra chitarre folk ed effetti di uccellini elettronici) e "Several Species of Small Furry Animals Gathered Together in a Cave and Grooving with a Pict", composizione prettamente noise che simula i rumori degli animali nel bosco; mentre Gilmour ci regala un saggio di bravura tecnica alla chitarra con la sua più meditata "The Narrow Way". Il disco è concluso da Mason con un ambizioso pezzo strumentale ("The Grand Vizier's Garden Party"), guidato, ovviamente, dalle percussioni. Nel disco dal vivo, brillano le versioni espanse di alcuni loro cavalli di battaglia (da "Astronomy Domine" a "Set The Controls For The Heart Of The Sun") e una delirante versione di quella "Careful With That Axe Eugene" che accompagna l'indimenticabile la scena finale di "Zabriskie Point". L'anno successivo vede i Pink Floyd cimentarsi con una nuova lunga composizione strumentale al quale verrà dato il curioso nome di lavorazione di "The Amazing Pudding". Negli intenti del gruppo il nuovo lungo pezzo dovrà stupire il pubblico, con effetti orchestrali senza precedenti nella loro produzione. Per le parti orchestrali viene chiamato il musicista scozzese Ron Geesin, al quale viene affidato il compito di arricchire la versione "nuda" della suite (base ritmica e linee base di tastiere e chitarra), costruita dai quattro e già presentata al pubblico in occasione di alcuni concerti.
Il risultato è eclatante: la suite, che si dipana attraverso straordinari "dialoghi" tra musica sinfonica (imponente è l'uso degli ottoni e del coro) e rock, prende il nome diAtom Heart Mother (dalla notizia di cronaca di una signora incinta tenuta in vita da uno stimolatore cardiaco atomico) e diventa la title-track del nuovo album, del quale andrà a occupare l'intera prima facciata.
I movimenti più suggestivi della suite sono "Breast Milky", caratterizzato dal celeberrimo dialogo tra l'organo arpeggiato e il violoncello, sul quale si inserisce infine la chitarra di Gilmour, e "Funky Dung", con basso e organo che lavorano in contrappunto e Gilmour alle prese con uno dei migliori soli chitarristici della sua carriera, prima dell'avvento del coro e dell'organo di Wright. La chiusura della suite è affidata a "Mind Your Throats Please" (caratteristica variazione floydiana di stampo rumoristico-psichedelico) e a "Remergence", in cui riemergono i temi prima dell'overtoure e poi del duetto violoncello e organo. Il finale è imponente, con una chitarra sempre incisiva e con l'orchestra e i cori che scandiscono il crescendo musicale.
La seconda facciata si apre con la delicata "If " di Waters (un semplice arpeggio di chitarra, la voce soffusa che sussurra parole intrise di malinconica poesia, una chitarra sognante nei brevi intermezzi musicali) e prosegue con "Summer '68", notevole pezzo di Wright (anche qui si nota l'uso dei fiati), l'onirica "Fat Old Sun" di Gilmour (canto caldo e suadente, chitarra sempre composta ma inesorabile) e si conclude con l'esperimento di "Alan's Psychedelic Breakfast", costituita da tre diversi momenti strumentali (il primo centrato sull'organo, il secondo sulle chitarre, il terzo più variegato e vicino allo stile dei primi Genesis) con la registrazione di una colazione all'inglese in sottofondo. Nata con l'ambizione di rappresentare la giornata di un uomo comune e ispirata a un roadie già immortalato nel retrocopertina di "Ummagumma"), la suite di Alan è a tutti gli effetti un esperimento poco riuscito.
Primo lavoro autoprodotto dai Pink Floyd e considerato il loro disco "progressive", Atom Heart Mother va ricordato anche per la "storica" copertina, raffigurante una mucca al pascolo.
Il successo di una musica così complessa si traduce ben presto in un'effettiva difficoltà di messa in scena, che richiede al complesso l'elaborazione di nuovo materiale da suonare in tutti gli angoli del mondo. Nasce così Meddle (1971), un album in cui i Pink Floyd più che rinnegare l'amore verso le lunghe suite (in questo caso la seconda facciata è occupata dalla splendida "Echoes"), danno un taglio alle divagazioni sinfoniche e si orientano verso sonorità più rock, agevolmente riproponibili nei concerti. Memorabile è l'iniziale "One of These Days", pezzo strumentale incentrato sul basso di Waters, amplificato sperimentalmente con un eco Binson, e impreziosito anche dal lungo assolo "slide" della chitarra di Gilmour. Da ricordare anche "Fearless", brano più quieto, caratterizzato da un coro dei tifosi del Liverpool nel finale.
Nel maggio 1971 viene pubblicato anche Relics, raccolta contenente diversi singoli mai apparsi su Lp, risalenti al periodo-Barrett, ma anche alcune perle del "primo" Waters edite solo su 45 giri, come la splendida ballata acustica di "Julia Dream".
Successivamente, i quattro decidono di registrare, con la direzione di Adrian Maben, un concerto senza pubblico tra le rovine di Pompei: il risultato è eccezionale, il complesso suona in maniera efficace vecchi e nuovi successi in uno scenario straordinariamente suggestivo. Il film Live At Pompei (1972) di Adrian Maben è una efficace e suggestiva testimonianza della straordinaria portata emotiva e visuale della musica dei Pink Floyd di questo periodo.
Nel '72 si presenta ai Pink Floyd la possibilità di confrontarsi nuovamente con l'esperienza delle colone sonore: è ancora una volta Barbet Schroeder a commissionare la musica per il suo nuovo film, "La Vallée". Stavolta l'operazione si rivela un fallimento soprattutto per colpa del film, giudicato dalla critica come opera sciatta e inconcludente.
L'album che ne deriva, Obscured By Clouds, smontato dai critici, va ricordato soprattutto per le atmosfere marcatamente rock, per la maturità dei testi di Waters e per alcuni pezzi orecchiabili come "Free Four" e "Childhood End".
Nello stesso periodo, il complesso lavora allo sviluppo di una suite concettuale sull'alienazione umana, il cui titolo provvisorio è "Eclipsed - A Piece For Assorted Lunatics". La suite viene "rodata" dal vivo per lungo tempo, prima di essere elaborata in studio con l'inserimento di effetti particolari, grazie all'aiuto del tecnico del suono Alan Parsons. Ne scaturisce uno dei grandi kolossal della band, The Dark Side Of The Moon.
Superbo saggio di produzione audio-fonica, forte di contenuti testuali ad effetto (con riferimenti alla natura effimera della vita, al denaro, all'incomunicabilità e alla follia) il disco presenta tuttavia alcuni passaggi a vuoto, a cominciare dall'insipida "Money" (con il celebre sassofono di Dick Parry), per poi passare attraverso i trucchi (talvolta ruffiani) di "Speak to Me" e "On the Run", perfette comunque nel rendere lo stato di ansia del protagonista, riuscendo a fondere, tra rumori e soluzioni sonore d'avanguardia, momenti di alto contenuto sonico-spaziale, ponendo le coordinate su cui si poggia il pensiero pessimista di un Waters alquanto disorientato, autentico ambasciatore di quel tema dell'incomunicabilità di cui "The Dark Side" risulta un drammatico spaccato. Non mancano, però, momenti di intenso lirismo, come dimostra "Time", trascinante nella sua felicissima fusione tra testo e musica, con un debordante assolo di Gilmour alla chitarra. La prima parte del disco si completa con una elegia alla pazzia, ma anche, allo stesso tempo, alla libertà dell'uomo, schiavo di una società che tende a opprimerlo: "The Great Gig in the Sky", dominata dai vocalizzi di derivazione soul-gospel di Clare Torry, in grado di fondere fiammante liricità e drammaturgia quasi cinematografica. "Us and Them" vorrebbe rievocare "Breathe In the Air", ma la melodia, sebbene pink-floydiana al 100%, risulta convincente solo se inserita nel contesto dell'album. Un discorso che vale un po' per tutto "The Dark Side of the Moon": ciò che rende immortale quest'opera è il suo inconsueto approccio con l'art-system dell'epoca, qui fotografato in tutte le sue direzioni possibili. Per il rock si trattò di un prodigioso balzo verso un'era futuristica prossima a venire, mentre per quel che concerneva il song-writing i Pink Floyd hanno certamente scritto pagine di più elevata caratura artistica.
Il risultato è comunque eclatante, davanti al gruppo si spalancano le porte del successo mondiale:The Dark Side Of The Moon rimane in classifica per lunghissimo tempo, divenendo uno dei maggiori successi commerciali di sempre. Tanto in Europa quanto in America, schiere di nuovi fan si raccolgono attorno al fenomeno Pink Floyd, lasciando anche una pesante incognita sul seguito da dare a un lavoro così fortunato. E' da questo disco in poi che Waters (autore di tutti i testi) assume sempre di più i gradi di leader della formazione.
Per oltre un anno i quattro rimangono inattivi dal punto di vista compositivo, per poi ritrovarsi in studio nel '74 con la sola certezza di "Shine on You Crazy Diamond", anche questo un brano piuttosto lungo, formato dai contributi dei quattro musicisti e guidato dagli assoli alla chitarra di Gilmour.
In un primo momento si pensa di riservare la prima facciata alla suite e la seconda a due brani: "Raving and Drooling" e "You Gotta Be Crazy". La lunga "gestazione" di Wish You Were Here suggerisce però ai Pink Floyd di intraprendere una strada diversa, trasferendo sul disco la sensazione di apatia e meccanicità che aleggiava su di loro: vengono scartati i due brani riservati alla seconda facciata, sostituti con nuove composizioni come la title-track (destinata a diventare una delle canzoni più famose della loro produzione), "Welcome To The Machine" e "Have A Cigar" (con alla voce Roy Harper), zeppe di accenni alla macchina tritatutto dello show-business. "Shine On You Crazy Diamond", invece, viene divisa in due parti, che aprono e chiudono il disco. Ne viene fuori un concept album sulla purezza e l'innocenza ormai perdute, con riferimenti neanche troppo velati a Syd Barrett, che si dice si fosse intrufolato, per un'ultima volta, negli studi durante le registrazioni. Musicalmente parlando, l'album è una gradevole prova stilistica, anche se si nota, rispetto agli album precedenti, la mancanza di quegli spunti innovativi che avevano sempre caratterizzato la produzione del gruppo inglese.
Per rivedere i Pink Floyd in studio bisogna aspettare il 1977, anno in cui i quattro decidono di raccogliere in un disco il materiale scartato dall'album precedente. Il nuovo lavoro nasce così dall'adattamento musicale e testuale di vecchi pezzi scartati come "You Gotta Be Crazy" e "Raving and Drooling", secondo un nuovo filo conduttore: il riferimento al mondo animale. I due pezzi diventano rispettivamente "Dogs" e "Sheep" e insieme alla nuova "Pigs (three different ones)" e alle brevi parentesi iniziale e finale di "Pigs On The Wing", vanno a costituire Animals, un'invettiva contro alcune figure della società (con i testi di Waters "cattivi" come non mai), orwellianamente sostituite dalle specie animali. Dal punto di vista tecnico, degna di nota è la trascinante costruzione ritmica, con tutti gli strumenti sempre in perfetta armonia, quasi fusi tra di loro a generare un unico suono, senza mai ricorrere a virtuosismi fini a se stessi.
Dopo la pubblicazione diAnimals, i Pink Floyd partono per un lungo e massacrante tour mondiale. Sarà in questa occasione che Waters, anche a causa di spiacevoli episodi, che lo vedranno protagonista perfino di screzi col pubblico, comincerà a sviluppare l'idea che porterà i quattro alla costruzione del loro ultimo capolavoro: The Wall.
L'album, ispirato a quella sorta di "muro" di incomunicabilità che si era venuto a creare tra il complesso e il pubblico (un muro che col passare del tempo si arricchirà nella testa di Waters di tanti mattoni fino a farlo diventare un emblema dell'alienazione e dell'estraniazione dal mondo a tutto raggio) è sviluppato su due dischi e abbraccia diverse tematiche come discriminazioni, istruzione, show-business, fascismo e implicazioni autobiografiche di Waters, sempre più "padre padrone" del gruppo (durante le registrazioni nascono forti contrasti con Gilmour e, al termine della gestazione dell'album, Wright viene allontanato). Per gli arrangiamenti la band fa nuovamente ricorso a effetti eclatanti e addirittura a parti orchestrali, grazie all'aiuto esterno di Michael Kamen. Pur vantando alcuni pezzi eccezionali come "Another Brick in the Wall, part 2", "Hey You", "Is There Anybody Out There?" e "Comfortably Numb" (con il memorabile assolo di chitarra di Gilmour), il disco è essenzialmente un'opera unica: nessun brano è slegato dal precedente e tutti sono funzionali allo svolgimento della storia che ha nella rockstar Pink (che talvolta ricorda la figura di Barrett, mentre in altri momenti è l'alter ego dello stesso Waters) il frustrato protagonista. "Another Brick in the Wall, part 2", in particolare, si rivelerà uno dei più grandi hit della band: preannunciata dall'arrivo degli elicotteri, è una canzone di una semplicità disarmante, costruita su un solo accordo ma impreziosita dall'ennesimo solo di chitarra di Gilmour e da un coro dei bambini, composto da 23 ragazzi della Islington Green School di Londra, di età compresa fra i 13 e i 15 anni. Il celebre verso del ritornello ("non abbiamo bisogno di istruzione, non abbiamo bisogno di controllo del pensiero") sarà utilizzato dai manifestanti neri in occasione dell'anniversario della sommossa di Soweto repressa nel sangue: il governo razzista del Sud Africa proibirà la diffusione del brano e ne ritirerà tutte le copie dai negozi. Pur permeato da una visione cupa e pessimistica della vita, il disco si conclude comunque con il "crollo" del muro e con il messaggio di speranza di "Outside the Wall".
L'album sarà premiato dal successo di vendite (clamoroso per un'opera su doppia distanza) e si presterà a una difficile quanto magnifica rappresentazione dal vivo: gli spettacoli saranno pochissimi ma memorabili, con il muro costruito a poco a poco sul palco, enormi pupazzi gonfiabili e coinvolgenti proiezioni.Da The Wall sarà tratto anche il film omonimo, con la regia di Alan Parker e Bob Geldof nel ruolo del protagonista Pink.
Il complesso esce però dall'esperienza alquanto provato: i dissidi tra le due anime del gruppo (Waters e Gilmour) appaiono difficilmente sanabili e Wright, come detto, viene allontanato.
I quattro decidono comunque di tornare in studio per registrare un album che, negli intenti, dovrà raccogliere il materiale scartato dal precedente lavoro.
La guerra per le isole Falkland-Malvine, però, fa scattare una scintilla nella mente di Waters, che decide di comporre nuovo materiale con un comune denominatore nella mancata realizzazione del sogno di pace postbellico.
L'album che ne viene fuori, The Final Cut, è in pratica una creatura del solo Waters, con gli altri membri relegati al ruolo di musicisti (e spesso neanche a quello). Di tutti gli album dei Pink Floyd è il meno coinvolgente, anche se la bellezza di alcuni brani (su tutti "The Gunners Dream" e "The Post-War Dream") rimane inattaccabile.
Purtroppo il titolo del disco si rivela molto presto profetico, costituendo l'atto finale di Waters come membro della band.
La volontà del bassista di sciogliere i Pink Floyd porterà a una lunga querelle con strascichi giudiziari per l'utilizzo di un marchio ormai sinonimo di best-seller, che vedrà Gilmour e Mason avere la meglio.
Il chitarrista, con l'aiuto di illustri musicisti e il modesto supporto di un Mason quantomeno svogliato, pubblicherà nel 1987 A Momentary Lapse Of Reason, mentre nel 1994, con il rientro a pieno titolo di Wright e Mason nelle vesti di compositori ed esecutori, uscirà The Division Bell.
I dischi, colmi di spunti tutt'altro che innovativi, seguiti dalle rispettive testimonianze live, Delicate Sound Of Thunder (1988) e Pulse (1995), se non altro ci consegnano dei musicisti tirati a lucido e sempre pronti a emozionare il pubblico, con concerti dagli apparati scenici mastodontici (da ricordare il famoso episodio di Venezia) e notevoli esecuzioni del glorioso repertorio.
Più recente è la pubblicazione di furbe operazioni commerciali come The Wall Live e un improbabile "Best of", che se non altro hanno l'intento di attirare nuove schiere di appassionati verso il mito senza tempo dei Pink Floyd.
* Contributi di Sigfrido Menghini, Alan Tasselli e Vittorio Iacovella

Autori e Musicisti: ROKIA TRAORE'

Rokia Traoré è una delle nuove regine della musica africana, un'artista che trae la propria linfa vitale dall'incontro fra tradizione e modernità. Una delle star più richieste dai festival europei perché questa giovane (26 anni) strepitosa chanteuse non ha soltanto una voce da favola, ma vanta anche una presenza scenica di debordante vitalità, di travolgente energia comunicativa che contagia il pubblico nella danza e nel canto.Un volto dai tratti caratteristici, determinati, ma allo stesso tempo delicati, nello sguardo che sembra perdersi lontano, sottotitolato da una splendida voce, leggera e diafana. Rokia Traorè è sicuramente una delle migliori artiste africane apparse sulla scena internazionale in quest' ultimo decennio. Rokia è anche una donna sensibile alle problematiche sociali. Autrice versatile e ispirata privilegia da sempre i temi di forte impatto sociale: la condizione dell'infanzia, l'emancipazione della donna, le sofferenze del suo popolo. Rokia Traorè, songwriter del Mali che scrive e interpreta canzoni, già con i primi due dischi "Mouneïssa" del '98 e "Wanita" del 2000, ha raccolto il più unanime tra i favori della critica mondiale occidentale da "Folk Roots" al "New York Times". Nel 2004 esce il suo terzo album - "Bowmboi" - (con il quale ottiene grandi successi e premi) - un autentico affresco sonoro di grande e profondo respiro poetico, registrato prevalentemente in Africa insieme a musicisti tradizionali, nel quale si avvale dell'apporto degli archi sofisticati del Kronos Quartet.Ora arriva con questo nuovo lavoro, TCHAMANTCHE' - (che vuol dire Equilibrio), che segna l'ultima fase in una carriera che ha completamente stravolto la concezione della musica dell'africa occidentale. "Voglio un nuovo inizio", spiega, "come se qualcuno stesse cominciando una nuovacarriera. Amo sperimentare e fare le cose in modo sempre differente. Voglio prendere il suono della Gretsch e fare tutto in un modo diverso."Il risultato?...: è sicuramente uno dei migliori album di quest'anno.È una delle giovani grandi voci dell'Africa, coltivata da Ali Farka Touré, e si è fatta conoscere fuori dal suo Mali nel 1997, quando Radio France International le ha conferito il premio African Discovery quale artista rivelazione al Festival di Angoulême. Discendente da una nobile stirpe del Mali, figlia di un diplomatico, cresciuta musicalmente attingendo ai ritmi dell'Alto Niger, al magico suono del balafon, alle voci corali del Wassolou, Rokia Traorè ha abbracciato la carriera musicale nel 1996, all'età di ventidue anni.Nel corso della sua vita ha viaggiato moltissimo per seguire il padre diplomatico. Le tradizioni e le culture a volte diversissime con cui ha avuto la possibilità di entrare in contatto, sono rimaste dentro di lei come fotografie scattate e riposte nei cassetti della memoria. E' così che nasce l'opera di Rokia Traoré, composta in parte dai patrimoni dei paesi più disparati sapientemente tradotti in musica; Ma non è solo la magia che trapela dalla contaminazione di più paesi a rendere speciale questa cantante, Rokia, infatti, è dotata di un talento straordinario e di una tecnica eccellente; rompe le tradizioni della sua terra con l'originalità delle sue composizioni che spesso nascono dalla melodia di una chitarra e dalla sua voce soave.

Autori e Musicisti: TOUMANI' DIABATE

La cultura del continente africano custodisce tradizioni ancestrali di preservazione e diffusione della propria cultura e del proprio passato. La musica si è sviluppata in un contesto storico privo di scrittura e ha assunto il ruolo importante di principale veicolo di comunicazione della tradizione popolare. Nel Mali l’unico vero depositario della memoria storica del proprio popolo è il djeli (letteralmente “trasmissione attraverso il sangue”), il cantore e musicista meglio conosciuto in Occidente con il termine di derivazione francese griot.Questa figura ha un ruolo sociale importante in quanto è il custode del patrimonio di temi e melodie trasmessi nei secoli attraverso le generazioni. E’ ad esso che si fa riferimento per affermare l’identità culturale del popolo mandè e per divulgare le storie e le gesta degli antenati, degli spiriti e della propria famiglia o gruppo etnico.La kora è lo strumento tradizionale suonato dai djeli di etnia mandinka. Si tratta di un’arpa liuto a 21 corde che si compone di una cosiddetta calabash, ovvero una grossa semi-zucca ricoperta di pelle di mucca (o di antilope e talvolta capra), alla quale è attaccato un manico che fa da tirante per le 21 corde che si inseriscono, in due file parallele rispettivamente di 10 e 11 corde. Le corde sono legate al manico da anelli di pelli che determinano l’accordatura.Ovviamente esistono delle varianti di kora, e svariati gli sono stili, le tecniche e le accordature della stessa. Addirittura le origini dello strumento sono incerte: secondo Diabatè la kora risale ai tempi di Soundjata Keita, il primo re dell’impero del Mali del XIII secolo e dopo peripezie capitata nelle mani di un antenato dello stesso musicista.Toumani Diabatè è soltanto uno degli ultimi discendenti di una famiglia di importanti musicisti: suo padre era Sidiki Diabatè,uno dei protagonisti della musica del Mali e colui che pubblicò il primo disco di sola kora in assoluto (“Cordes Anciennes”, 1970).Sono essenzialmente due le scuole importanti di kora: quella del Gambia e quella del Mali. La prima fa un uso della kora come strumento solista, quella del Mali la usa prevalentemente come strumento di accompagnamento per i cantanti.Per la registrazione di questo disco l’artista ha apportato alcune modifiche alla kora: per la prima volta, in alcuni brani, sono state utilizzate delle corde tipiche delle arpe di tipo occidentale. Altra novità è l’utilizzo di chiavi di legno al posto di tradizionali anelli di pelle adoperati per il tiraggio delle corde. Queste modifiche nell’accordatura dello strumento hanno determinato un suono più limpido e armonico.L’importanza di “The Mandè Variations” (i mandè sono un gruppo etnico dell’Africa Occidentale, definiti dalla cultura e dalla lingua piuttosto che dall'etnicità, alla cui popolazione mandinka, inclusa in questo gruppo, appartiene Diabatè) è spiegata proprio dalle variazioni dai temi del repertorio tradizionale del Mali e dall’uso pionieristico della kora. La caratteristica principale è costituita dalla libera improvvisazione e dalla “variazione” di ritmo, armonia, tema, melodia e dalla contaminazione con altre sonorità: temi tipici del jazz (“Ali Farka Tourè”, dove fraseggi di assoluta libertà impro-virtuosistica sono spezzati da momenti di struggente intensità lirica), minimalismo (in “Ismael Drame”, dedicata alla propria guida spirituale, l’atmosfera si fa più cupa e riflessiva), raga indiano (“El Nabiyouna” ricorda fraseggi di sitar indiani, prima di sfociare in una dinamica più energica del solito), fino a un accenno western morriconiano (la conclusiva “Cantelowes”, che finisce poi con il dipanarsi in un intreccio ritmico e melodico tipico dello stile del più classico di Diabatè).Tra le dediche da segnalare anche quella di "Kaounding Cissoko" a un altro amico e musicista scomparso: Baaba Maal, fenomeno pop (chitarrista, cantante, ballerino) del Senegal.L’album arriva venti anni dopo l’esordio del musicista maliano, quando a 21 anni pubblicò “Kaira”, l’altro lavoro per sola kora che inaugurò una carriera ricchissima di prestigiose collaborazioni, valga per tutte quella con il mai troppo compianto Ali Farka Tourè: “In The Heart Of The Moon”, uscito nel 2005 e Grammy Awards 2006.Ciò che rende l’opera unica è la grande semplicità e raffinatezza nel combinare i vari passaggi sonori, rivisitare le melodie tradizionali dei djeli scavando nelle radici arcaiche senza tuttavia snaturarle anzi arricchendole con altre influenze. Tutto il disco è permeato da momenti di grande intensità e lirismo che lasciano senza fiato: Diabaté dimostra una padronanza assoluta dello strumento improvvisando con una naturalezza disarmante e dettando in contemporanea la linea di basso, accompagnamento e improvvisazione.In “Si naani”, forse uno dei momenti più intensi del disco, ricorre a una scala di tipo orientale detta “egizia” e, attraverso in una serie rivisitazioni di alcune melodie dei djeli del Mali del nord e del centro, parte da una canzone d'amore, "Maramba Musu", snodandosi attraverso una serie di rielaborazioni fino a "Njaaro” (una melodia tipica dei djeli di etnia fulani).

Territori musicali inediti, dove l’equilibrio tra tradizione e modernità riesce a trovare un importante punto d’arrivo. Un po’ come faceva John Fahey con la sua chitarra, con un’intensità che spazza subito via qualsiasi accusa di virtuosismo gratuito, Toumani Diabatè riesce ad architettare con spontaneità una musica che, senza l’utilizzo di parole, fa parlare e vibrare terra e anima, facendo emergere secoli di culture e tradizioni del proprio paese.
“The Mandè Variations” è un album bello e non facile, una preghiera in otto movimenti lontana da qualsiasi moda o tendenza.

Autori e Musicisti: BB KING

Riley B. King, nasce a Itta Bena Mississipi, il 16 settembre del 1925. Nasce in una situazione tipica dello sviluppo della musica blues, cioè una famiglia povera, che lavora nelle piantagioni del sud. Lui inizia a cantare in chiesa, ed a quindici anni già suona la chitarra in un gruppo gospel. Si trasferisce a Memphis per fare il militare, e li trova suo cugino "Bukka White" noto bluesman. Dopo un pò farà il DJ in una radio, facendosi chiamare "Riley King, the blues boy from beale street", ma presto il nome si accorcierà in B.B. King. Lui è molto legato alla sua chitarra "Lucille" si chiama cosi perchè nel 1945 in un locale dove suonava, c'erano degli uomini che si picchiavano, per una donna di nome Lucille, finì che diedero fuoco al locale e scapparono tutti. Lui però si accorse di aver lasciato dentro la chiatarra, andò a prenderla tra le fiamme, e da quel giorno decise di chiamarla "Lucille", che tutt'oggi risplende fra le sua mani. Tra il 1951 ed il 1968, the king crea una serie di album che si piazzano al top delle classifiche rhithm&blues, era un instancabile concertista, andava da un capo all'altro d'america con la sua band suonando tutti i giorni. Lui è stato il precursore naturale di nomi come: James Brown, Otis Redding, ma anche Rod Stewart ed Eric Clapton. Riuscì a portare il blues vero, afroamericano, all'interno del rock, creando atmosfere nuove ed esaltanti. Il rhithm'n'blues, si può considerare una sua creazione. Il blues ritmico, il blues ballabile. Non facendo altro che aprire i suoi orizzonti ed incoraggiare nuovi personaggi come: i "rolling stones" che devono molto a musicisti come "Muddy Waters", contemporaneo di B.B. king. Moltissimi i suoi duetti, tra cui quelli con Eric Clapton e gli U2. Tra le sue canzoni più belle ci sono sicuramente "Guess who" "The thrill is gone" "Help the poor" "Watch yourself", solo per dirne alcune. Il blues gli deve molto, ma anche il rock.


Riley b. King, né au Mississippi IDA Chartres, le 16 septembre 1925.Pauline dans un scénario typique pour le développement de la musique blues, c'est-à-dire une famille pauvre, qui travaillent dans les plantations dans le Sud. Il commence à chanter à l'église, et quinze ans déjà des sons la guitare dans un groupe de gospel. Il a déplacé vers Memphis pour rendre les militaires et les trouve son cousin "Bukka blanc" connue bluesman. Une fois un peu fera une radio DJ, vous faisant appeler "Riley King, le garçon de beale street blues", mais bientôt l'accorcierà de nom dans L.PD. King. Il est très liée à son "Lucille" guitare est appelé ainsi car en 1945 dans une salle où a joué, il y avait les hommes qui vous picchiavano, à une femme nommée Lucille, s'est terminée qu'incendie a donné à latous locaux et fled. Il a toutefois vous d'avoir laissé à l'intérieur de la chiatarra, est allé prendre entre les flammes, et depuis ce jour, il a décidé d'appeler "Lucille", accorseque toujours ' brille aujourd'hui entre sa main. Entre 1951 et 1968, le roi crée une série d'albums qui suggèrent en haut de la rhithm graphiques & blues, a été un infatigable concertista, est passée d'une extrémité à l'autre de l'Amérique avec sa bande jouer chaque jour. Il fut le précurseur naturel des noms comme : James Brown, Otis Redding, mais aussi de Rod Stewart et Eric Clapton. Il a réussi à mettre la valeur true, les afroamericano, les blues rock, la création de nouveaux et excitants atmosphères. Le rhithm ' ne blues, vous pouvez envisager une sa création. Le blues de ritmico, ballabile blues. Ne pas faire plus que d'ouvrir ses horizons et encourager les nouveaux caractères tels que : "pierres de matériel roulant" doivent très musiciens comme "Muddy Waters" , roi de l.PD. contemporain. Beaucoup de duos, y compris ceux avec Eric Clapton et U2. Il y a certainement parmi ses plus belles chansons "visage qui" "Le frisson est disparu" «Aide les pauvres» «Regarder vous-même.», uniquement pour certains le dire. Le blues doit beaucoup, mais la roche.

lunedì 9 novembre 2009

MUSICA: Mali - Tradizione del suono: di Marino Nebuloni

La multietnicità del Mali si riflette anche nel patrimonio musicale, dato da un differente uso di strumenti, dalle diverse tonalità sonore e dalle composizioni che rispecchiano le singole tradizioni. La musica ritma le differenti stagioni dell’essere umano, accompagnandolo nelle molteplici situazioni che incontra dalla nascita alla morte. Il Matrimonio, il raccolto, le cerimonie, l’allevamento, la caccia, la pesca, le transumanze, tutto è raccontato ed accompagnato da melodie che si incuneano nella vita dell’uomo africano. Anche se l’approccio è differente a seconda dell’appartenenza etnica, la musica ne permea l’esistenza. Canti ritmati da un semplice tamburellare di dita sulle calebasses ed accompagnati da strumenti monocorde o rudimentali flauti fino ad elaborate composizioni create con l’ausilio di strumentazione varia ed evoluta.
Troviamo così le melodie solitarie dei Peulh, popolo nomade, che servono ad allontanare la solitudine. La coralità Bambarà. I Bobo, che seguono i ritmi frenetici delle coreografie con l’uso di strumenti a percussione, Tamburi e “Balafon”. Fischietti e campanacci che fanno da sfondo alle cerimonie funebri impersonate dalle maschere Dogon. Il ritmo ipnotico del “imzad”, il violino monocorda tra i Songhai ed i Bellàh che iniziano riti nella brousse o nella tradizione “tamasheq dei Touareg,”, quando accolgono i geni dell’acqua. La cosa diviene artisticamente più sofisticata con
l’ingresso dei “griot”, i cantastorie, che accompagnano il loro canto al suono della “korà”. I suonatori creano sonorità energiche, ricche di vibrazioni avvolgenti o intimiste, a seconda che si tratti di cerimonie festose o riti sacri.
Individuare l’esatta origine dell’uso di alcuni strumenti non è così semplice. La colonizzazione e la successiva nascita degli stati-nazione africani, hanno alterato gli originari confini territoriali, rendendo difficile stabilire la loro precisa localizzazione, inoltre, molti racconti orali lasciano supporre che, in tempi remoti, solo ad una minoranza di “iniziati” fosse permesso di apprendere l’arte del suono. Se a questo detto, sommiamo il fatto che alcuni strumenti, cambiano denominazione a seconda del villaggi in cui vengono usati, la loro origine si complica. Accontentiamoci dunque di sapere che alcuni di questi esistono e sono stati utilizzati magistralmente da etnie che successivamente hanno sviluppato, grazie al loro uso, una sensibilità ritmica ed artistica di elevata fattezza.
A tal proposito, raggruppando gli strumenti in tre categorie differenti, potremo dare uno sguardo alla panoramica strumentale utilizzata non solo in Mali ma nell’Africa Nera.
I Membranofoni sono tutti i tipi di tamburi (cilindrici, tronco conici, a botte, a calice, a clessidra ecc.) e si basano sulla messa in vibrazione per frizione, percussione, pizzico o pressione di membrane soggette a tensione mediante tiranti. Tali membrane sono in gran parte costituite da pelli animali. Prendono nomi diversi a seconda delle forme e delle zone:
il Djembè ha una struttura che ha forma di calice, sull’imbocco maggiore è tesa una pelle. Il Bwa, strumento ascellare a forma di clessidra, con due pelli tese sugli imbocchi alle due estremità, il cui suono, modulato dall’ascella stessa del musicista, è ottenuto mediante un bastone ricurvo. Il Bala-Bala, usato da Bobo, Senufo e Bambara, la cui cassa armonica non è altro che una grossa mezza zucca vuota (Calebasse). L’atumpan è un tamburo Ashanti. Il darabukka è un tamburo arabo a calice. ll dundun è un tamburo a clessidra di origine Nigeriana. Il sabar è un tamburo a calice monopelle originario del Wolof del Senegal. Il dundun, anche se non molto usato nel Mali, merita un approfondimento. Viene chiamato Il tamburo parlante ed è usato prevalentemente dai “griot”. Il suonatore tiene il tamburo sulla spalla e lo colpisce con una singola bacchetta, usando l'altra mano per agire sulle corde che tengono tesa la membrana, pizzicandole o lasciandole per modificare il tono prodotto dallo strumento. I musicisti più abili riescono a produrre modulazioni che ricordano quelle della voce umana, specialmente con riferimento ai linguaggi tonali di alcune zone dell'Africa. alcuni musicisti hanno raffinato questa tecnica al punto che con il tamburo riescono a riprodurre frasi e nomi di persone Il djembé, la cui tipica forma a calice è ottenuta intagliando un pezzo unico di legno, ricavato dagli alberi di tek. Una volta montata, la membrana in pelle (generalmente di capra o antilope) viene lasciata essiccare, in modo da aumentarne la tensione per ottenere i suoni voluti dal djembéfola (il suonatore di djembé). Sempre più spesso, ai bordi della parte superiore, vengono applicate appendici metalliche, di ferro o latta, le cui vibrazioni rinforzano e prolungano il suono del djembé, creando un particolare stile poliritmico.
I cordofoni producono il suono per la messa in vibrazione di una o più corde tese tra due punti fissi. Il più semplice è l'arco sonoro (ekibulenge per i Nande del Congo-Zaire), derivato direttamente dall'arco con il quale comunemente si scagliano le frecce. Le corde possono essere
sfregate con un archetto, pizzicate, premute o percosse. I cordofoni comprendono arpe
(enanga), cetre (o arpe-cetre come il mvet del Gabon e del Camerun), lire e liuti.
La kora, è lo strumento principale dei cantastorie (griot) della cultura Mandingo (Senegal, Mali, Guinea, Gambia): la cassa di risonanza è ricavata da una mezza zucca svuotata sulla quale è tesa una pelle di animale (mucca o antilope). Sulla cassa è infisso un manico in legno da cui dipartono ben 21 corde in due file parallele rispettivamente di 10 ed 11 corde, rette da un ponticello perpendicolare al piano armonico. Le corde erano tradizionalmente fatte di cuoio, per esempio di pelle d'antilope; oggi sono molto usate anche le corde d'arpa o il filo di nylon. Talvolta, fili di iversi materiali vengono avvolti assieme per formare una corda più spessa con un timbro specifico.
Strumento musicale del gruppo dei cordofoni, della famiglia delle arpe a ponte è praticamente considerata un'arpa-liuto. È uno strumento tradizionale dell'etnia Mandinka, diffusa in buona parte dell'Africa Occidentale.
Alcune kora moderne (in particolare costruite nella regione di Casamance, nel Senegal meridionale) hanno alcune corde aggiuntive (fino a quattro) dedicate ai bassi. Esistono anche varianti di kora a 23, 25, 27 fino ad un massimo di 28 corde. Le corde sono legate al manico da anelli di pelle; spostando tali anelli si può variare l'accordatura dello strumento. La tradizione
prevede quattro diverse accordature, dette tomora ba (o sila ba), hardino, sauta e tomora mesengo; corrispondono grosso modo alla scala maggiore, alla scala minore, alla scala lidia e alla scala blues. La tipologia di accordatura a cui si ricorre dipende perciò dal brano che si vuole eseguire. Sebbene il suono di una kora sia molto simile a quello di un’arpa, le tecniche utilizzate per suonarla sono molto più simili a quelle impiegate per la chitarra del flamenco. L’esecutore suona lo strumento ponendolo davanti a sé, sorreggendolo con le due dita medie che fanno presa su due sporgenze di legno. Le corde vengono pizzicate con l’indice e l pollice di entrambe le mani, la fila di 11 con la mano sinistra, quella di 10 con la destra. I suonatori molto esperti sono capaci d eseguire contemporaneamente un accompagnamento (detto kumbeng) e un assolo improvvisato (chiamato biriminting). La kora è diffusa presso tutti i popoli Mandinka dell'Africa occidentale; la si trova in Mali, Guinea, Senegal e Gambia. Il suonatore di kora viene detto jali; in genere appartiene a una famiglia di griot, ovvero di cantastorie. Così come il griot gode di un grande rispetto presso i popoli Mandinka (quale detentore della conoscenza sulle tradizioni, le gesta degli antenati, gli alberi genealogici dei clan, ovvero dell'intera tradizionale orale del popolo), nalogamente quello di "jali" è considerato un titolo onorifico molto importante.Esistono diversi
racconti orali che narrano l’invenzione e la storia di questo particolarissimo strumento
musicale: nell’area dell’antico Regno del Mali, si narra che la Kora fu inventata da un grande capo dei guerrieri, Tira Maghan che l’avrebbe donata ai griots del suo villaggio; da quel momento essa sarebbe divenuta lo strumento privilegiato dei griots che ne avrebbero scoperto tutte le sfaccettature e le possibilità sonore al fine di rendere al meglio il prezioso dono ricevuto dal loro signore. Secondo una variante dello stesso mito, diffusa in Gambia, nella regione del Kansala la prima Kora sarebbe appartenuta ad una donna particolarmente ingegnosa e creativa, robabilmente una griotte.
Negli idiofoni viene messo in vibrazione il materiale stesso con cui lo strumento è costruito
(per esempio, legno o metallo). Possono essere sollecitati per sfregamento, percussione, pizzico,
pressione, frizione, raschiamento. I più noti idiofoni sono; i sanza o ‘mbira, costituiti da
lamelle metalliche o vegetali, il Balafon, xilofono tipico dell’Africa occidentale, i Grageb, campane
e sonagli per gli Gnawa del Marocco e shaqshaq in Algeria.
Il Balafon è uno strumento musicale caratteristico dell'Africa Occidentale subsahariana:
si tratta di uno xilofono generalmente pentatonico, a volte diatonico. I popoli Susu e Malinké della, sono strettamente legati alla storia ed all'uso di questo strumento, così come il popolo Malinke del Mali, Senegal e Gambia. È composto da una struttura di base in fasce di legno o in bambù in cui, sotto, vengono posizionate orizzontalmente le zucche (calebasse) che fungono da cassa di risonanza, il cui numero può variare ma che generalmente si aggira intorno alla dozzina; a volte le zucche vengono forate e rivestite di sottili membrane che una volte erano costituite da
tele di ragno o ali di pipistrello ma attualmente viene moto utilizzata la carta per rivestire il tabacco delle sigarette o da una sottile pellicola di plastica. Al di sopra delle zucche si trovano i tasti, fatti di legno, di forma rettangolare posizionati in maniera decrescente. Quelli più piccoli producono i suoni più acuti. Il numero di tasti varia in base alla dimensione dello strumento. Il balafon diatonico presenta tasti più spessi ma meno larghi proprio perché deve fornire note più alte.
In appendice, si è accennato ai “griot”. Varrebbe la pena dedicare qualche riga d’approfondimento a questo personaggio, che nella tradizione orale, con gli anziani dei villaggi, potrebbe essere considerato come una biblioteca vivente. Prevalentemente di sesso maschile, ma uomo o donna che sia poco importa, è una figura presente in tutta l’Africa occidentale. Il termine “griot” starebbe a significare “signore della parola” . La sua immancabile presenza a funerali, matrimoni, cerimonie di sacrificio, riti di circoncisione, fa si che la testimonianza dell’accaduto possa continuare a vivere. È un cantastorie, un “libro vivente” dove vengono appuntati fatti e cronache di storia vissuta. Elemento indispensabile nella cultura locale, passa da villaggio a villaggio raccontando e tramandando avvenimenti di fatti accaduti realmente o racconti
leggendari.

MUSICA: Mali - Musica Arte e non solo: di Marino Nebuloni

Premessa:
L’africa è la patria della tradizione orale, quell’insieme di saperi che presentano una modalità di trasmissione diretta, senza l’uso di supporti scritti. Questo genere di sapere si traduce in molte forme differenti di narrazione e performance ed è particolarmente diffuso tra le popolazioni che vivono nell'Africa sub-sahariana, tanto da riferirsi ad esse come a "civiltà della parola". Il veicolo di comunicazione è dunque interamente ed esclusivamente dato dalla voce. I saperi relativi alla
tradizione orale africana possono appartenere ad ambiti molto diversi: possono esserci tradizioni orali storiche, mitologiche, musicali, religiose, politiche, giuridiche, letterarie.
Come sostiene il famoso intellettuale maliano Amadou Hampâté Bâ (1900-1991): "le tradizioni orali sono gli archivi letterari, storici e scientifici dell'Africa".
Amadou Hampâté Bâ (Bandiagara, 1900 – Abidjan, 15 maggio 1991) è stato uno scrittore, filosofo e antropologo maliano - Figlio di Hampâté Bâ e di Kadidja Pâté Poullo Diallo, egli apparteneva ad una famiglia nobile fulbe. Dopo la morte di suo padre, sarà adottato dal secondo marito di sua madre e iniziato ai saperi e alle pratiche del suo popolo. Frequentò la scuola coranica di Tierno Bokar, un membro della confraternita tidjaniyya ed in seguito occupò diversi ruoli all'interno dell'amministrazione coloniale francese, prima a Bandiagara, poi a Djenné. In seguito a numerosi scontri con gli amministratori, si spostò frequentemente nella regione allora chiamata Alto Volta (oggi Burkina Faso). Tra il 1922 e il 1932, occupò diversi incarichi in svariate città burkinabé e nel 1933, ottenne un congedo di 6 mesi che trascorse dal suo maestro Tierno Bokar. Nel 1942, ottenne un incarico dall’Institut Français d’Afrique Noire (IFAN) di Dakar grazie al suo direttore, il professor Théodore Monod. In questo contesto, poté effettuare importanti ricerche sulle tradizioni orali. Nel 1951, ottenne una borsa di studio dall'Unesco che gli
permise di svolgere un soggiorno di studi a Parigi e di conoscere i maggiori africanisti dell'epoca, come Marcel Griaule. Nel 1960, in seguito all'indipendenza del Mali, fondò l'Istituto di Scienze umane a Bamako e rappresentò il suo paese alla conferenza generale dell'Unesco. Nel 1962 venne nominato membro esecutivo dell'Unesco e nel 1966 partecipò all'eleborazione di un sistema unificato per la trascrizione delle lingue africane. Nel 1970, Hampate Ba decise di lasciare i suoi
incarichi ufficiali e diplomatici per dedicarsi interamente ad un progetto di ricerca e d'archiviazione del patrimonio orale dell'Africa occidentale, consacrandosi perciò ad un lavoro di ricerca e di scrittura: gli ultimi anni della sua vita, trascorsi ad Abidjan, lo porteranno alla scrittura di due romanzi autobiografici, Amkoullel, il bambino fulbe e Signorsì, comandante, pubblicati postumi, nel 1991.

La MUSICA
I suoni Malinkè

La armonie tradizionali Maliane si sono sviluppate grazie all’uso di strumenti “classici” come il Balafon, la Korà ed il doundoun. In linea generale, narrano trame epiche e canti di lode.
Questi motivi vengono espressi prevalentemente dai “Djeli” (Griot) appartenenti al gruppo etnico Malinkè (Mandingue). L’arte dei djeli viene trasmessa di padre in figlio, ed i musicisti appartengono a poche famiglie ben conosciute: Kouyate, Diabate, Sissoko, Kone, Kamissoko, Sacko Koite, Tounkara, Konate, i Kanoute, i Kante.
I maninka non appartenenti a queste famiglie non possono definirsi djeli e non possono svolgere il loro ruolo sociale.
Esistono comunque artisti che non rientrano nel “rango nobiliare” della musica tradizionale, che producono ottima musica libera da vincoli tradizionali, ma non saranno mai coinvolti nel circuito dei concerti privati e di cerimonie insite nella società maliana, che assicurano ai djeli un lavoro costante e un conseguente introito economico sicuro. Un esempio di “djeli libero” lo troviamo in Salif Keita o Habib Koite. I malinke si distinguono in tre sottogruppi dialettali, ciascuno con la propria tradizione musicale.
La musica “classica” del Djeli che si identifica quindi con la tradizione dei Maninka abitanti nel Mali occidentale, si avvale di scale armoniche “eptatoniche” unite al grande repertorio epico proveniente da siti storici come Kita e Kela, sono interpretati da nomi illustri come Kandia Kouyate, Amy Koita, Kassemady Diabate. (brani di riferimento: Sundjata, Kulandjan, Mali Sadjo)
A differenza degli altri stili, la musica dei djeli malinke che aderisce in maniera ferrea alle regole ed ai vincoli della tradizione, tende a mantenere la sua specificità di musica nobile, di corte, alla quale è affidata la rilevante responsabilità di custodire la cultura del passato. A tal proposito, esisterebbe un certo snobbismo nei confronti degli altri musicisti e generi musicali.

I ritmi Bambarà
Il gruppo etnico più diffuso nel Mali, con centro geografico a Segou, i Bambara invece producono una musicalità che fluisce incessantemente dalle numerosissime radioline sparse in ogni luogo, dal taxi alla bottega alimentare. Questa melodia si differenzia da quella maninka innanzitutto perché si basa su una scala armonica pentatonica, ed i suoi ritmi sono influenzati dalla sonorità del nord, di matrice Songhai, con elementi arabi. Nel canto invece, la voce ricorre a forme “antifonali” (con più linee melodiche del tutto indipendenti l’una dall’altra, sia dal punto di vista
melodico che ritmico), basate su dialoghi tra solisti e cori. Lo strumento prevalente è lo n’goni, mentre è raro ascoltare il suono della korà.
Il suono Bambarà differisce inoltre da quella Djeli a causa delle sue radici. La musicalità derivante dalla casta di cacciatori, che nasce da antichi rituali propiziatori. Musicalità dunque di struttura molto semplice, con canti antifonali esclusivamente maschili accompagnati da percussioni.

La sonorità Fulani
L’etnia nomade dei Fulani (Peul), diffusa in tutta l’area sahelica, ha invece una sua tradizione musicale specifica, caratterizzata da strumenti musicali facilmente trasportabili, come il flauto o il violino tradizionale ad una corda, o utensili adibiti anche ad altri usi, come i recipienti di zucca, o calabasse. Accade spesso che musicisti peul, soprattutto flautisti, vengano inseriti in ensable nelle tradizionali espressioni musicali e culturali, appartenenti ad altre etnie.

Influenza araba
Nel campo musicale, altre tradizioni etniche da rammentare sono quella Dogon dell’area nord orientale, mentre spingendoci sempre più verso nord, si fanno decisamente sentire quelle delle etnie del deserto, i Songhai e i Tamashek, dove viene riscontrata una tradizione musicale con forte influenza araba.
Artisti come Ali Farka Toure o i Tinariwen, con il loro “desert blues”, hanno contribuito a trasmettere anche oltre confine le forme ritmiche tradizionali del deserto, trasportando le stesse sulle corde di una chitarra elettrica.

Armonie Wassoulou
Una particolare nota di attenzioneva data ad una tradizione musicale importante, che nasce nella regione di Wassoulou a cavallo tra Mali e Guinea. La musica del Wassoulou, non è legata a famiglie djeli, usa la scala pentatonica e il canto è affidato soprattutto alle donne, accompagnate da un coro femminile. La ritmica è potente ed è basata soprattutto sul djembe, sul karignan e sui flé, strumenti di zucche e conchiglie, mentre i testi delle canzoni sono spesso di critica costruttiva
alla società tradizionale.

Artisti di riferimento:
Ali Farka Toure, Baba Sissoku Oumou Sangare, Rokia Traore, Nahawa Doumbia, Lobi Traore, Neba Solo, Abdulaye Diabate, e Issa Bagayogo,


DA SAPERE:
MARTIN SCORSESE ha ricercato e trasportato in un film, il percorso di scoperta delle radici africane del blues. «Dal Mali al Mississippi », un viaggio che si conclude ai margini del deserto, il
Ténéré.
Dall’anno 2001, in pieno deserto, si tiene ogni metà gennaio un festival, nell’oasi di Essekrane a nord di Tombouctou. È una manifestazione che si svolge nella terra dei Kel Tamashek, «quelli che parlano tamashek», i Tuareg. Un nome che significa «abbandonati da dio» e che loro, giustamente, respingono.
Sulle sabbie a nord del fiume Niger è avvenuta una fusione tra la musica contemporanea e la poesia tradizionale Tamashek. I suoni Maliani, espressi da Selif Keita e Ali Farka Toure si amalgamano a versi poetici colmi di struggente nostalgia per la vita libera negli infiniti spazi desertici. Una denuncia su un futuro che avrebbe potuto esserci ed invece non c’è stato.
Risulta un incontro quasi leggendaro con il gruppo Tamashek più rappresentativo, i Tinariwen.
La storia dice che:
Il padre del fondatore del gruppo, Ibrahim, è fuggito in Algeria portandolo sulle spalle, prima di essere ucciso dai soldati maliani nel 1963, ai tempi della prima rivolta tamashek. Ibrahim iniziò costruendo da solo delle chitarre artigianali. L’incontro con le chitarre elettriche vere e proprie avvenne nei campi in Libia dove il colonnello Gheddafi addestrava i tamashek. La prima formazione dei Tinariwen è nata lì. Ibrahim faceva parte del Movimento popolare dell’Azawad, che combatteva contro il governo del Mali per l’emancipazione delle regioni settentrionali. Assieme a lui c’erano i primi membri del gruppo: Kheddou, Enteyedden e Mohammed. Le chitarre furono comprate dal capo dell’Mpa, Iyad Ag Ghali. La leggenda dice ancora che nella scaramuccia che fece scattare la seconda ribellione tamashek, a Menaka, un avamposto ell’esercito maliano vicino alla frontiera con il Niger, il 30 giugno 1990, Kheddou partìÏ all’attacco, kalashnikov in mano e chitarra elettrica sulla schiena.
Nel 1992, dopo l’accordo di pace, i Tinariwen hanno lasciato i kalashnikov, ma tenuto le chitarre diventate la cifra sonora dei loro due dischi «The Radio Tisdas sessions» e il recente Amassakoul», un’implosione di malinconia, misticismo e passione per le sorti del proprio popolo. Anche il deserto, che secondo un proverbio tamashek è stato creato da Dio perché gli uomini potessero trovare la propria anima, è assediato dalla modernità. Una modernità subìta, che sfilaccia i legami sociali, forse irrimediabilmente. Ma che offre anche, in angoli insperati, le risorse
per affidare la poesia di un popolo del deserto a una musica profonda e toccante, capace di viaggiare e farsi ascoltare e amare ovunque.............................................

Un ringraziamento particolare all'amico G.M.Rampelli di http://www.tpafrica.it/ per la gentile concessione di alcuni estratti di testo che sono stati utili per la creazione del post Mali- MUSICA, ARTE E NON SOLO.... e la sua divulgazione